Terra celeste, la porcellana.
Capace di lasciar intravedere
il bianco vuoto dietro le cose.
Dalla lavorazione alla cottura fino alla resa fotografica, la porcellana è pudica, sfuggente e imprevedibile.
Deve essere lavorata in tempi brevi e con chiarezza di intenti perché tende a perdere velocemente la già scarsa plasticità, disidratandosi. Al tornio l’impasto risulta cedevole, con una scarsa tenuta. Ha un ritiro superiore al 20%, che costringe a lavorare con dimensioni non realistiche in previsione di una cottura che le ridurrà vistosamente. Una volta essiccata è estremamente fragile. In forno manifesta rotture o deformazioni, essendo un’argilla che trattiene in modo particolare le linee di forza impresse durante il processo di lavorazione, soprattutto al tornio. Perfino nel fotografarla la porcellana è cosa viva, si sposa a tal punto con la luce da poter dire che la luminosità la ricrea.
Solo l’attenzione non aggressiva che proviene dal rispetto consente di entrarci in relazione. Allora la pazienza si dispiega senza sforzo, quasi un lungo respiro dell’amore.
Mentre il lavoro con il grès o qualunque altra argilla è inscritto in uno spazio di ordine, misura e previsione, la porcellana è stata per me fin da subito l’esperienza della mancanza di controllo, capace di aprire un confronto silenzioso con ciò di cui non possiamo appropriarci. Questo sostare sul limite tra quello che sai e puoi fare e quello che invece accade è un respiro salutare per la mente, specializzata nel calcolo, nella previsione e nell’automatismo. La porcellana chiede una docile disponibilità ad accogliere quel che in quel momento si offre.
Lavoro una porcellana traslucida con l’uso del tornio oppure interamente a mano, cercando di ottenere spessori molto sottili che oppongano la minima resistenza alla luce. La temperatura finale di cottura di 1280° trasforma l’impasto in un corpo compatto, vetroso, altamente resistente, di un bianco caldo e luminoso. Per me, di una travolgente bellezza.